Avendo lavorato per molti anni come consulente in una scuola elementare ho traversato gli interminabili conflitti che contrappongono l’istituzione scuola e l’istituzione famiglia. Gli insuccessi e i problemi critici dei bambini rimbalzano da una sponda all’altra delle due istituzioni, che sono i contesti formativi maggiori tra i sei e i dieci anni, cercando di individuare e fissare in un bersaglio riconoscibile le responsabilità delle difficoltà, dei problemi, dei fallimenti.
Ho conosciuto così le famiglie iper-protettive, incapaci di lanciare i figli nel mondo, di consentire loro di sperimentarsi, di mettersi alla prova. In Italia, in effetti, la famiglia ha un ruolo centrale nella vita delle persone, spesso più che in altri paesi occidentali. Questo porta a un attaccamento emotivo forte tra genitori e figli, che rende meno attraente l’idea di vivere da soli. Sul piano sociale si aggiunge un’instabilità economica che è un fattore chiave nella permanenza dei giovani in famiglia. Salari bassi, contratti a tempo determinato o part-time, prezzi elevati degli appartamenti contribuiscono al prolungamento della vita nell’alveo protetto della famiglia. In Italia è se non socialmente accettato, senz’altro tollerato, che i giovani restino con la famiglia fino ai trent’anni anni o più, dove in altri paesi europei si tende a uscire di casa molto prima. Ciò è dovuto, tra l’altro, a un’idea della vita adulta spesso definita dal matrimonio o dalla convivenza, piuttosto che dalla semplice indipendenza individuale.
Questo è quanto meno l’aspetto sociologico del problema, che non è tuttavia il più importante. Leo Longanesi [1], nel 1944, ha scritto, interpretando un sentimento profondamente calato nello spirito del paese: “La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: ho famiglia”, espressione che prende il senso di un atteggiamento elastico, se non di vera e propria deroga rispetto ai principi etici, all’impegno civile, all’attenzione al bene comune.
Anche oggi per altro, in mancanza di significativi sussidi e incentivi per i giovani, la famiglia rimane il maggior ammortizzatore sociale, la principale rete di sicurezza in caso di difficoltà economiche o lavorative.
Un altro scrittore, Andrea Bajani, in un libro recente, L’anniversario [2], riprende questo tema, sottolineando come ci sia qualcosa di profondamente cattolico e italiano nel ridurre alla famiglia ogni atto sociale e ogni spinta identitaria, “dal mutuo aiuto al capitalismo familiare alla vendetta, dall’articolazione della rete criminale all’incapacità di esprimere una forma di governo duraturo, una forma cioè di potere riconosciuto come superiore al vincolo dei geni, o della parentela.”
Bajani però non assume tutto questo nell’ovatta della rassegnazione, perché la famiglia che iper-protegge, che fornisce di tutto, che nutre senza prospettiva di svezzamento, se per un verso è la famiglia di quelli che a suo tempo, nel 2007, in un’audizione al Parlamento, Padoa Schioppa aveva definito “bamboccioni”, è per altro verso la famiglia da cui fuggire. Ne L’anniversario Bajani dipinge una famiglia dalla quale la sola possibilità di salvezza è la fuga. È vero che descrive una situazione oppressiva, che stritola, che annebbia l’esistenza in un potere totalitario dove la sola possibilità di sopravvivenza è rendersi invisibili. Ma non è questo l’altro lato, il versante Thanatos della famiglia che avvolge dentro di sé i figli in una tutela che toglie il respiro, l’iniziativa, la possibilità stessa di un pensiero divergente?
Lo ha ben capito una altro scrittore, James Ballard, con il suo straordinario racconto Un gioco da bambini [3] (Running wild) pubblicato nel 1988. Il romanzo è ambientato in una Gran Bretagna futuristica, in una comunità residenziale d’élite. Questo luogo è presentato come un’oasi di perfezione, dove la tecnologia e il benessere economico dovrebbero garantire una vita idilliaca. Tuttavia, questa apparente perfezione presenta una realtà inquietante: quella di una società iper-protettiva, dove i bambini sono cresciuti in un ambiente sterile e privo di esperienze autentiche, per evadere dalla quale si danno a un’esplosione di violenza, perpetrando un massacro di adulti e rendendosi irreperibili.
La famiglia dell’annullamento torpido, che intossica d’amore, ha in effetti il suo risvolto in una violenza cieca, in un’eruzione di Thanatos apparentemente inevitabile per bucare la bolla di una respirazione artificiale che isola dal mondo e smorza ogni possibile iniziativa.
[1] Leo Longanesi, Parliamo dell’elefante. Frammenti di un diario, Longanesi, Milano 1947.
[2] James Ballard (1988), Un gioco da bambini, Feltrinelli, Milano 2007.
[3] Andrea Bajani, L’anniversario, Feltrinelli, Milano 2024.