La scena è nel film Il monello [1]. Charlot scopre che c’è un buco nella coperta. Ci infila il piede. Per un momento lo vediamo perplesso. Poi, dal letto, si cala verso il buco, ci infila la testa e si alza: la coperta bucata è diventata un poncho, indossando il quale farà colazione con eleganza. Il film è tutto qui riassunto. Fin dall’inizio Charlot occupa il buco lasciato dal padre del monello, assente, e dalla madre, alla quale il bambino è stato tolto. Piuttosto che cercare di tappare il buco, Charlot lo abita e se ne riveste, mostrando che non c’è alcun contenuto pieno e definitivo della funzione paterna che occupa e a cui non è incollato.
“Se un padre si identifica con la funzione, può credersi Dio. Il risultato può andare dalla tirannia domestica del presidente Schreber fino all’istallazione di un sistema educativo ideale” [2]. Charlot è un profeta della deidealizzazione dell’educazione, della funzione paterna e della famiglia – non solo di una deidealizzazione a venire, nel momento in cui il film è uscito –, ma anche di una
deidealizzazione che è sempre già all’opera per chiunque si stacchi, quale che sia l’epoca, dai miti connessi a questi significanti. Charlot non è all’altezza del padre ideale, nella scena della coperta bucata come quando orchestra piccoli imbrogli con il monello; si sottrae di fronte a un altro padre, grosso e muscoloso, o, per un momento, proprio all’inizio del film, prende in considerazione l’idea di abbandonare il bambino. Neppure la famiglia che inventa con il ragazzino è ideale: vivono in una baracca, il bambino pare prendersi spesso cura di Charlot più di quanto non faccia Charlot con lui, e finiscono per costituire, con la madre del bambino, quando la ritrovano, una specie di struttura familiare strana, nuova ed enigmatica sulla quale si chiude l’intrigo senza che si sappia a cosa darà luogo.
Ma questo padre, che lascia trasparire i buchi è, proprio per questo, quello che si potrebbe chiamare ’un padre sufficientemente buono’, parafrasando l’espressione di Winnicott [3]: egli trasmette un po’ del suo desiderio e del suo modo di godere al bambino, con gioia, creatività, tenacia e amore, ma lasciando che l’abito della loro relazione sia sufficientemente scollato per non fare ostacolo alla mancanza che nell’uno e nell’altro nutre la corsa sinuosa di un desiderio singolare e sempre inedito. Facendo eco alla formula di Lacan che propone di fare a meno del Nome-del-Padre a condizione di servirsene [4], si potrebbe dire di Charlot che si serve della metafora paterna a condizione di non incollarcisi troppo. Charlot lo dice a suo modo, quando degli agenti gli chiedono se è il padre del bambino. Egli risponde: “Practically”, condensando in una parola il paradosso che consiste nel fare a meno dell’ideale per meglio rivestirsi delle sue vesti sgualcite. È un profeta pragmatico, privo del lirismo che a volte ingombra il discorso profetico.
Il monello, con il suo umorismo e la sua leggerezza malinconica, si tiene al riparo dal godimento enfatico che ossessiona spesso i discorsi a favore di un ritorno al vero padre, alla vera famiglia, alla vera educazione,e da quelli che, al rovescio, pretendono di poter inaugurare un’età dell’oro che rompa con il patriarcato.
[1]C. Chaplin, Il monello, 1921, Charles Chaplin Productions.
[2]É. Laurent, Un nouvel amour pour le père, in La Cause freudienne, n. 64, octobre 2006, p. 84 [trad. nostra].
[3] Il riferimento è al concetto di madre sufficientemente buona elaborato da D.W. Winnicott.
[4] Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo [1975-1976], Astrolabio, Roma, 2006, p. 133.
Traduzione: Ilaria Papandrea
Rilettura: Maura Ragni