La famiglia umana non si costituisce grazie all’istinto, ma attraverso le invenzioni. Lacan lo sviluppa nel suo testo del 1938 I complessi familiari nella formazione dell’individuo: «La specie umana è caratterizzata da uno sviluppo singolare delle relazioni sociali […] Viene così resa possibile una varietà infinita di comportamenti adattivi» [1].
Hirokazu Kore’eda nei suoi film fa di questo tema una serie. Nel 2022 realizza Le Buone Stelle, racconto on the road di una famiglia che non è una famiglia. Così come una nascita può sconvolgere i membri di una famiglia, anche i personaggi di questo film, «sparsi scompagnati» [2], creano legami e vivono un rovesciamento soggettivo attorno a un neonato. Seguiamo qui la madre che si chiama, in modo così significativo, So-Young.
La scena iniziale, lenta e silenziosa, testimonia la sua solitudine. La macchina da presa la segue, anonima, mentre cammina sotto una pioggia battente per le strade di una città coreana. Quando arriva davanti a una torre dell’abbandono, chiamata in Corea «scatola per neonati», lo spettatore scopre che è madre e che si è recata lì per lasciare il proprio figlio. Le uniche parole della scena sono quelle scritte su un foglietto: il nome scelto per il bambino e una promessa di ritornare. Davanti al muro dell’orfanotrofio, So-Young non riesce a depositare il neonato nella scatola: lo lascia a terra, proprio davanti al muro, creando così uno spazio. Questo spazio, al limite della separazione, è una magistrale illustrazione del suo desiderio perduto, senza appello, ma che la lega al figlio.
All’insaputa della madre, un osservatore invece di lasciare il bambino a terra lo mette nella scatola. L’intreccio si avvia quando, dall’altro lato del muro, il neonato finisce nelle mani di trafficanti coinvolti nelle reti clandestine del « mercato » delle adozioni. Il desiderio di So-Young manda in corto circuito questo traffico, quando torna sul luogo dell’abbandono per ritrovare il proprio figlio. I due trafficanti la convincono a seguirli, affinché possa assicurarsi che suo figlio venga affidato a dei « buoni genitori ». Kore’eda filma il giro in furgone attraverso una composizione di quadri in cui la posizione dei corpi — incluso quello del neonato — racconta i legami che si creano. Con umorismo, le relazioni di parentela si stabiliscono nel campo dell’immaginario, dove l’Altro sociale crede di avere a che fare con «un papà», «un fratellino», «una mamma»; oppure in un gioco di menzogne, in cui i personaggi si fanno passare per «la figlia di…», «il marito di…». Progressivamente, i legami si incarnano a partire da momenti cruciali: il dono d’amore, il dono della parola, o l’angoscia di perdere l’altro.
La giovane madre — di cui veniamo a sapere che era scappata dalla propria famiglia e che era diventata lei stessa oggetto di commercio sessuale — trova in questa istituzione insolita una posizione soggettiva che le permette di «uscire dal disagio altrimenti che con il passaggio all’atto» [3], secondo la formulazione di Francesca Biagi-Chai. «Se vi avessi conosciuti prima, sarebbe stato diverso, poiché so che avrei voluto tenerlo», confida So-Young ai suoi compagni di viaggio. Questo condizionale al passato mostra che lei sa che la rivelazione del segreto che la lega al figlio — il suo passaggio all’atto originario, quello che precede l’abbandono, l’uccisione del padre — segnerà la fine di questo viaggio in famiglia.
[1] J. Lacan, I complessi familiari nella formazione dell’individuo, in Altri scritti, Einaudi, Torino 2001, p. 23.
[2] J. Lacan, Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI , in Altri scritti, Einaudi, Torino 2001, p. 565.
[3] F. Biagi-Chai, Fare famiglia, in FaMIL, Newsletter di Pipol 12, n° 3, disponibile online.
Traduzione: Emanuela Sabatini
Revisione: Elena Madera