Cronistorie
Beatrice Cenci, figlia di Francesco, ricco, dissoluto e violento, segregata in un castello a Rieti, è abusata dal padre durante tutta l’adolescenza per ragioni, si dice, prettamente economiche: un’abusata non se la piglia nessuno e il patrimonio resta intatto. Beatrice si ribella al padre padrone e lo uccide. La Chiesa, non certo dalla parte di una donna, intinge nella tragedia familiare: papa Clemente VIII s’impossessa dei beni confiscati ai Cenci, mentre sulla piazza di Ponte Sant’Angelo, l’11 settembre del 1599 Beatrice viene esecutata davanti alla folla imbestialita contro il papa e in ammirazione, invece, per il coraggio della fanciulla. Il boia, colto da senso di colpa, si suicida.
Giovanni Verga in Tentazione!, del 1884, narra dello stupro perpetrato da tre giovani su una donna nei pressi di Milano. I fulcri della novella sono la misoginia portata sulla donna in quanto creatura pericolosa e la crisi di coscienza di uno dei giovani il quale cerca di capire il mistero del suo atto e diventa pazzo. Come si fa ad «arrivare ad avere il sangue nelle mani cominciando dallo scherzare», è l’interrogativo che Verga, anche autore de La lupa, donna colpevole di essere femmina e sensuale, ci lascia. Interrogativo ancora attuale fronte alle ludiche ed efferate violenze dei giovani.
In Italia, le nostre nonne adultere, seppur risparmiate dal marchio della lettera scarlatta − vedi il romanzo omonimo di Nathaniel Hawthorne del 1850 − erano fuori legge: talvolta condannate alla pena di due anni e comunque deprivate dei figli. Il reato di adulterio è dichiarato costituzionalmente illegittimo con due sentenze solo nel 1968-69. La matrice cattolica che impregna la nostra cultura, nonché la rivendicazione dell’onore della donna, di stampo machista e mafioso, hanno alimentato la concezione della donna vergine o madre, altrimenti puttana.
Oggi
È sempre una questione di godimento, insegna Lacan.
Quando il potere e il diritto del padre si sostituiscono alla funzione del nome del padre, che incarna la legge nel desiderio, e la madre, le cui cure dovrebbero portare “il marchio di un interesse particola rizzato” [1], non fa della propria mancanza il freno alla madre ideale, anche la donna diventa abusante.
Non sempre l’abuso viene direttamente dal maschio. Il godimento materno, non temperato dall’accesso al femminile, inchioda il bambino o la bambina in posizione di oggetto sino a ridurlo, per esempio, a spettatore di atti perversi, degradato a puro oggetto sguardo – morto; oppure raddoppia l’abuso in un godimento cieco, silenzioso e omertoso fronte all’abuso perpetrato dal padre, dal nonno, dal patrigno, sui figli, quasi in reverenza verso il maschio.
Nella pratica incontriamo uomini e donne per i quali il silenzio e l’omertà materna costituiscono un buco nero nel defilé dei significanti e, se l’abuso è rivelato in analisi, capita che non basti averlo detto, ma che il detto stesso precipiti nel buco nero. Il soggetto è risucchiato in una “bolla” – significante di un paziente – e occorre un secondo giro affinché l’impatto con il godimento inaudito e traumatico, di cui egli stesso si è fatto omertoso, si articoli, nel solco dell’etica, come la sua “eredità” – significante del paziente –: eredità di “ciò che non cessa di non scriversi” [2].
[1] Lacan J., «Nota sul bambino», Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 367.
[2] Lacan J., Ancora, Einaudi, Torino, 1983, p. 93.